Malinconia d’infinito in Carla Nico

C’è una malinconia di fondo che lentamente prende corpo sulle ricche tele della Nico, una malinconia d’infinito che incredibilmente si evolve in colori curatissimi, vivi, con un senso di rococò nei particolari, che sono parte integrante delle figure rappresentate. Ed esse stesse finiscono per divenire immagini elaborate di donne e non il contrario; mi spiego meglio: non sono le immagini muliebri a servirsi di appendici, simili a ricami di preziosi arazzi, ma sono i ghirigori delle greche, degli arazzi che diventano figure, in qualche modo camuffate o più esattamente protette da essi.

Non cadiamo nell’abile tranello del titolo: “Donne svelate”; in realtà la loro rivelazione è soltanto il più forte e duro colpo inferto ai secoli dell’impero maschile dal pennello della pittrice; il tempo produrrà il resto. La cromia delle tele annuncia, quasi ieraticamente, la necessità di assegnare, ormai improrogabilmente, il ruolo dell’Essere Femminile, ed esso è affiancato e simile a quello dell’uomo, altra presenza fuori campo che incombe sulle tele della Nico.

Millenni di sottomissioni e di sofferenza non si cancellano in pochi anni di raggiunta parità. E la donna, pur nella sua prorompente, fresca, femminea vitalità artistica, non se la sente e non può ancora esporsi a tutto campo; remore sedimentate la premono, come pure la necessità, testimoniata dall’abile disegno, che già di per sé dona vita autonoma alle figure, di non svilire, in nome di un potere, sia pure importante, la funzione e i pregi della donna.

 Questa, secondo me, è la bellezza nuova di siffatte tele: una femminilità proposta e retratta, offerta ed occultata, in un gioco di luci e di colori incastonati come sapienti tessere di mosaico a strati sovrapposti. La donna è sempre la donna, ma ogni volta più completa, perché ogni volta la pittrice scava più in profondità dentro di sé e riporta in superficie verità/bellezze nuove. Come se da un mare carico di relitti, l’ardito sub restituisca alla vista di tutti, tesori creduti persi per sempre. Un lavoro di recupero, quindi, quello dell’artista, ma non solo. E’ necessaria una base di valori per sistemare il “prezioso” più bello, una giusta compagnia, insomma, per rivelare il proprio tesoro che è l’arte e la ricerca personali, non percorsi da altri.

Primo, l’originalità, secondo, una strada comune che collochi l’artista nel disegno iniziato da secoli, ma che deve continuare in una logica di eventi e contenuti novelli, che arricchiscano la storia dell’arte.

L’uso della stratificazione calza a pennello (è il caso di rimanere in tema); anche la civiltà è progredita, secolo su secolo, in una sedimentazione che la sintesi della pittrice riporta ed ospita nel suo cammino.

La Nico non si compiace delle proprie verità, le restituisce alla superficie con l’abile mano che ha raggiunto il suo stile e le lascia in balia di occhi ritratti con invidiabile senso dell’Infinito. Un infinito fatto non di profondità spaziali o temporali, ma un infinito di memorie che riescono a sopravvivere, nonostante il freno della mano tenda a minimizzarle, relegandole in un gagliardo corollario. E non basta proporle nude, nella loro innocente purezza le donne, un vestito di secoli comunque le protegge e la loro sensualità è quella della mamma che allatta il suo avido bambino.

 

Getulio Baldazzi